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Ci sono date che ciascuno di noi ricorda con chiarezza. Nell’ultimo anno, purtroppo, accanto a quelle che sono positivamente impresse nella nostra memoria, se ne sono aggiunte altre più drammatiche.

21 febbraio 2020: viene annunciato il primo caso di Covid in Italia non riconducibile direttamente ad un rientro dalla Cina.
9 marzo 2020: viene annunciato il lockdown che inizierà il giorno seguente.

Da allora, seguiranno altre date che ancora oggi ricordiamo: l’inizio delle ondate successive, che ad oggi non accennano ad arrestarsi, e gli eventi ad esse collegati.
Ma è proprio tra il 21 febbraio e il 10 marzo 2020 che, accanto ad altri eventi purtroppo molto più drammatici, l’Italia scopre in massa un fenomeno che fino ad allora era stato sperimentato da pochi: lo smartworking. Un modo di lavorare non certo adottabile da tutti ma che, nell’ultimo anno, ha interessato tantissimi lavoratori che non vi si erano mai avvicinati prima.

In soli 15 giorni il modo di lavorare in tutto il Paese ha attraversato una rivoluzione inaspettata.

Anche noi di Errebicom abbiamo sperimentato, quasi tutti per la prima volta, questo modo di lavorare. Fortunatamente potevamo contare su un sistema di base già rodato: una delle nostre collaboratrici risiede in un’altra regione e già da tempo lavorava per la maggior parte dell’anno da remoto. Questo ci ha permesso di avere a disposizione un sistema di condivisione dati e di accesso ai sistemi aziendali fisicamente collocati in ufficio già a regime. Abbiamo così potuto reagire prontamente all’emergenza, nonostante alcuni vincoli che da sempre avevano reso difficile l’adozione dello smartworking per il nostro team, non da ultimo il fatto che quasi tutti lavoriamo con computer fissi: strumenti che facilitano lo svolgimento del nostro lavoro, legato a file grafici di peso notevole, ma che avevano sempre rappresentato un impedimento all’adozione dello smartworking per alcuni giorni a settimana.
Come molte della attività lavorative con sede a Milano (e in tutte le altre grandi città italiane), la maggior parte del nostro team viene dall’hinterland ed era abituato a spostarsi quotidianamente con i mezzi pubblici: ecco perché, quando lo stato di emergenza è diventato evidente, non abbiamo esitato a spostare il nostro lavoro nelle nostre case.

10 marzo 2020: è la data che leghiamo al cambiamento radicale del nostro modo di lavorare.

Quel giorno abbiamo preso le nostre cose, tra cui gli ingombranti computer fissi prima menzionati, e abbiamo chiuso l’ufficio. Eravamo ottimisti, certi che lo stato d’emergenza sarebbe finito prima del previsto. Un anno dopo, in quell’ufficio non siamo più tornati, salvo che per alcune giornate occasionali.
Inizialmente è stato difficile, non lo vogliamo negare. Le case di molti di noi non erano le più adeguate a trascorrervi l’intera giornata lavorativa. Non tutti potevamo contare su connessioni Internet ultra performanti, o su ambienti di lavoro silenziosi. Ma ci siamo adattati, consci di avere una grande fortuna: anche nei momenti più critici dell’emergenza il nostro lavoro non si è mai fermato. Questo ci ha permesso di continuare a supportare i nostri clienti come prima della pandemia: certo, il modo di fare incontri e riunioni è cambiato, ma non ha perso di efficacia. Più “egoisticamente”, poter adottare lo smartworking ha permesso, a noi e ad altri milioni di lavoratori, di continuare a svolgere il nostro lavoro a tempo pieno e senza stop: un sollievo dal punto di vista economico, ma anche un grande aiuto per affrontare le giornate più dure, come quelle del lockdown di marzo e aprile.
Un anno dopo possiamo dire di esserci ormai adattati a questa nuova normalità lavorativa. Certo, quando sarà possibile farlo in sicurezza saremo felici di rientrare in ufficio e tornare a sperimentare una maggiore condivisione con i nostri colleghi, ma nel frattempo abbiamo superato i problemi e gli ostacoli iniziali. Dove possibile, abbiamo potenziato i mezzi a nostra disposizione. Abbiamo migliorato l’organizzazione delle nostre case, rendendole più adeguate a trascorrervi la giornata lavorativa. Abbiamo sperimentato tutte le piattaforme di comunicazione possibili, capendo una cosa: anche da lontano, il lavoro di team è un ingrediente fondamentale della nostra professione.

Se non tutti hanno potuto trarre vantaggio dallo smartworking, è innegabile che un fenomeno di nicchia si sia trasformato nell’ultimo anno (ma in realtà nel giro di 15 giorni) in un fenomeno di massa.

L’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano ha certificato nel report 2020 un fenomeno sotto gli occhi di tutti: prima della pandemia, i lavoratori in smartworking in Italia erano circa 570.000, principalmente impiegati nelle grandi imprese. A fine 2020 erano circa 6,58 milioni, ovvero un terzo dei lavoratori dipendenti di tutta Italia. Il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni e il 58% delle PMI hanno esteso nel 2020 la possibilità di lavorare da remoto ai propri dipendenti: tra queste ultime, ci siamo anche noi!
A settembre 2020, al rientro dalle ferie e quando la fase più critica della pandemia è apparsa (erroneamente) superata, gli smartworker in Italia erano ancora 5,06 milioni. Un segno della grande prudenza adottata per il rientro in sede, specialmente nelle grandi città, ma anche un indicatore di come lo smartworking è destinato a diventare, nella sua accezione corretta che coniuga lavoro in sede e lavoro da remoto, la nuova normalità del mondo del lavoro, anche nel nostro Paese: al termine dell’emergenza, lo studio stima che 5,35 milioni di persone continueranno a lavorare almeno in parte da remoto.

L’adozione emergenziale e massiccia dello smartworking ne ha evidenziato rapidamente luci e ombre.

Come detto, noi stessi le abbiamo sperimentate presto, talvolta in maniera “traumatica”, e siamo certi che questo valga per la quasi totalità dei lavoratori che hanno visto cambiare radicalmente la loro routine da un giorno all’altro.
Da un lato si è trattato di fare i conti con i dispositivi tecnologici a disposizione, dall’altra con un nuovo modo di vivere la quotidianità, in un periodo in cui l’adozione dello smartworking ha coinciso con il lockdown e con il crollo di qualsiasi forma di normalità a cui eravamo abituati. Trovare un nuovo equilibrio tra lavoro e vita privata è stata una delle difficoltà maggiori riscontrare a livello statistico. Basti pensare che, da quanto emerge dal report dell’Osservatorio Smart Working, il 28% dei lavoratori ha riscontrato difficoltà in tal senso e il 33% dei manager delle grandi imprese non era preparato a gestire il lavoro da remoto. Accanto a queste problematiche emergono poi quelle psicologiche e più ovvie: un maggior senso di isolamento, la mancanza del contatto con i colleghi, la sensazione di staccare meno di frequente.
D’altro canto questo cambio di rotta repentino e radicale ha permesso di abbattere con una velocità altrimenti inimmaginabile i pregiudizi sul lavoro agile e di migliorare le competenze digitali di molti lavoratori. I lavoratori stessi hanno riconosciuto i pro dello smartworking: una ricerca condotta dal Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha evidenziato come l’84% degli intervistati abbia concordato l’adozione dello smartworking con la propria azienda o, anche se l’ha subita come scelta imposta, ne riconosca i lati positivi e le potenzialità per far fronte alle difficoltà organizzative del periodo pandemico. Più della metà dei lavoratori intervistati si è detto contento di poter lavorare da casa: un dato sicuramente accentuato dal periodo emergenziale, che ha imposto nuove difficoltà nella gestione della vita privata e dei figli minorenni, ma che rappresenta un importante indicatore anche per il futuro.

Quale sarà allora la nuova normalità lavorativa del post-pandemia?

Per fare qualsiasi tipo di previsione è importante ricordare che quello che ad oggi definiamo smartworking non è esattamente tale. Lo smartworking vero e proprio prevede infatti una maggiore flessibilità lavorativa, sia in termini di luoghi che di tempi. In questa fase emergenziale, questo problema è stato relativo: le possibilità di movimento sono state comunque quasi sempre estremamente limitate e coloro che desideravano lavorare in luoghi diversi hanno cercato, nella maggior parte dei casi, mediazioni a livello personale con i datori di lavoro. Anche a livello di orari, spesso i lavoratori in smartworking hanno continuato ad adottare i normali orari d’ufficio, talvolta prolungandoli ma non stravolgendoli.
In futuro, l’adozione dello smartworking vero e proprio dovrà tenere maggiormente in considerazione le specificità di questo modo di lavorare basato fondamentalmente più sugli obiettivi raggiunti che su vincoli specifici. Sicuramente, però, il 2020 ha sdoganato un modo di lavorare che altrimenti, nel nostro Paese, sarebbe ancora oggi sperimentato da una percentuale estremamente ridotta di persone. Una ricerca condotta da Randstad stima che in Italia vi siano 6,4 milioni di lavoratori in grado di lavorare esclusivamente in smartworking, a cui si sommano altri 1,6 milioni di persone in grado di farlo in modo ibrido, integrando lavoro da remoto e presenza fisica in sede. Oggi, però, solo 3 milioni di lavoratori riescono a sfruttare positivamente e in modo intelligente questo modo di lavorare. Superata la pandemia, il modo in cui sapremo integrare lo smartworking nella nostra normalità e trarne beneficio definirà se il 2020 è riuscito, alla fine, a lasciarci anche qualcosa di buono. Il futuro del mondo del lavoro sarà per forza integrato, in un mix tra remoto e presenza: una sfida che il nostro Paese e ogni azienda devono essere pronti ad affrontare.

Author Errebicom

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